martedì 17 gennaio 2017

Qualcuno volò sul nido del cuculo /regia di Alessandro Gassmann. Teatro Eliseo, 14 gennaio 2017


Devo premettere – e so di suscitare le espressioni scandalizzate di molti – che non ho visto il film di Miloš Forman interpretato da Jack Nicholson. Il che è certamente una grossa mancanza, che non mi permette di fare un confronto con una trasposizione più fedele del testo del romanzo di Ken Kesey pubblicato nel 1962, ma forse allo stesso tempo rappresenta un vantaggio perché mi permette di approcciare l’adattamento teatrale scritto da Maurizio De Giovanni e diretto da Alessandro Gassmann senza preconcetti né immagini mentali già costituite.

Questa trasposizione sposta la storia del protagonista originale, Randle Patrick McMurphy, ambientata nell’ospedale psichiatrico di Salem in California, presso l’ospedale psichiatrico di Aversa nel 1982 e il nome del protagonista diventa Dario Denise (ottimamente interpretato da Daniele Russo), così come conseguentemente tutti gli altri protagonisti vengono riletti in questa ottica.

La storia è appunto quella di Dario, un piccolo delinquente che per sfuggire al carcere si finge pazzo e finisce appunto in un reparto dell’ospedale psichiatrico. Qui a poco a poco si rende conto della disumanità dell’ambiente che lo circonda, sottoposto alle rigide regole di suor Lucia (la capo infermiera interpretata da Elisabetta Valgoi) e incapace - anzi senza alcun desiderio - di comprendere realmente e di riportare alla vita le persone che qui dentro sono rinchiuse in parte volontariamente: il professore che non riesce a convivere con il suo essere gay, il ragazzo schiacciato dal ruolo della madre, il romagnolo ossessionato dal sesso, l’artista folle che disegna in aria, lo schizofrenico e Ramon, un omone sudamericano che è una presenza silenziosa sul palcoscenico, ma ai cui sogni è affidata la tristezza e l’aspirazione all’affrancamento che accomuna tutte queste persone.

In breve tempo, Dario – che è fumantino e giocatore d’azzardo e all’inizio vede nei suoi compagni una possibilità di fare soldi – si lega di amicizia vera a questa persone e inizia una personale battaglia contro la capo infermiera che lo porterà a rinunciare alla sua libertà e a mettere a rischio la sua stessa esistenza.

Il palco è allestito in modo efficace con una scenografia che si articola su due piani: quello della sala comune dell’ospedale psichiatrico con il gabbiotto del personale da una parte e il bagno dall’altra, e il secondo piano dove ci sono solo porte chiuse con ombre di persone che si agitano e si lamentano. Solo in un momento dello spettacolo i nostri protagonisti usciranno all’aperto sul tetto dell’ospedale trovandosi davanti al panorama del golfo di Napoli.

Alessandro Gassmann, che è sempre più spostato sulla regia teatrale ma è certamente uomo di cinema e di televisione, anche in questo caso – come già avevo visto in 7 minuti – utilizza il telo trasparente calato davanti alla scena su cui, quando la scena è buia vengono proiettate immagini che sono sogni o distorsioni della realtà.

Il risultato è uno spettacolo molto coinvolgente in cui si ride e in alcuni momenti si piange, e ci si arrabbia e si fa il tifo esattamente come i nostri protagonisti davanti alla finale dei mondiali di calcio in cui l’Italia sconfigge la Germania.

Durante le oltre 2 ore e mezza di spettacolo non c’è un momento di stanchezza e il ritmo si mantiene alto e serrato. Cosicché quando il telo si solleva finalmente per portarci a contatto diretto con gli attori il pubblico  dell’Eliseo (non numerosissimo) dimostra di aver apprezzato molto e io pure batto le mani convintamente.

A luci spente poi mi rendo conto di aver assistito a uno spettacolo certamente intelligente e coraggioso, che porta l’attenzione su un tema ancora attuale, ossia la condizione di difficoltà pratica e psicologica dei malati di mente e la difficoltà sociale di affrontare queste situazioni, ma all’interno di un testo che mostra i suoi anni, in particolare nel manicheismo con cui i buoni, su tutti Dario, si contrappongono ai cattivi, la capo infermiera, senza che nessuna sfumatura intervenga a stimolare una lettura più complessa e a comprendere il groviglio psicologico che si crea in questo tipo di contesti.

Ma, del resto, capisco che questo è un testo di denuncia e mantiene questa caratteristica anche nella trasposizione di De Giovanni e Gassmann e, in un’opera di denuncia, il messaggio deve essere forte e chiaro e non c’è spazio per sfumature che producano scappatoie.

Dunque, un plauso a regista e adattatore che hanno avuto il coraggio di confrontarsi con un testo cult senza timori reverenziali e conferendo alla rappresentazione una identità al contempo rispettosa dell’originale ma anche assolutamente personale.

Voto: 3/5

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