mercoledì 2 marzo 2016

Fuocoammare

Trasformare un luogo geografico e degli aridi numeri in volti e sguardi immersi nella quotidianità: questo - secondo me - è il risultato più straordinario che Gianfranco Rosi realizza con il suo film, Fuocoammare, vincitore dell'Orso d'oro all'ultimo Festival internazionale del cinema di Berlino.

Un film - come ha detto la mia amica L. - "necessario", ma che ha il grande merito di non aver voluto premere sul pedale della retorica e del melodramma. Un film, tra l'altro, visivamente bellissimo e poetico, e non perché siano necessariamente belle le cose che ci mostra, ma perché è partecipe ed empatico lo sguardo del regista.

Siamo a Lampedusa. Da un lato seguiamo la vita quotidiana di una famiglia lampedusana: un ragazzino, Samuele, appassionato di fionda, con un occhio pigro e il respiro che a volte manca, che si esercita sul pontile per non avere il mal di mare, a cui piace sentire i nonni raccontare le storie del passato, ancora un bambino ma che a volte ha già i modi di un adulto. Dall'altro lato, ci sono i barconi dei migranti che quotidianamente sbarcano sull'isola o vengono soccorsi in mare dalla guardia costiera, e la routine dei primi interventi medici, della conta dei vivi e dei morti, dell'identificazione e delle foto, e della paura e la voglia di riscatto scolpite negli occhi di questi uomini e donne che stanno rischiando tutto.

Il punto di contatto tra questi due mondi è il medico di Lampedusa, che visita Samuele che ha l'affanno e interviene quotidianamente a prestare soccorso a chi arriva in condizioni disperate, alle donne incinte, ai ragazzi ustionati dalla nafta.

La telecamera sta a contatto stretto con le persone che racconta ed è una presenza che anche lo spettatore sente. Qualcuno entra volontariamente nell'occhio della telecamera e la tratta da amica per raccontare la propria testimonianza, quacun altro la guarda spaurito, qualcun altro ancora sembra quasi non percepirne più l'invadenza. Credo che la magia del film di Gianfranco Rosi sia in buona parte spiegata dalla scelta del regista e di parte della troupe di vivere l'isola non in maniera fugace, bensì a lungo e nella quotidianità, fino a diventarne parte. Un po' quello che accade per il fotografo che non sempre - come siamo abituati a pensare - ruba l'attimo, bensì è in grado di cogliere lo spirito di un luogo e delle persone che lo abitano quando ci si immerge insieme alla sua camera talmente a lungo da diventare parzialmente invisibile o da non essere più percepito come un estraneo.

Un film minimale, ma denso, in cui lo spettatore è talmente chiamato in causa, da non potersi distrarre neppure per un secondo, anche quando sullo schermo non accade nulla che non sia "banale" routine quotidiana di un luogo che di per se stesso tutto è fuorché banale.

Voto: 4,5/5

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