sabato 25 aprile 2015

Mia madre

Non posso certamente dire che quello di Nanni Moretti sia un brutto film; e comprendo le recensioni tra il commosso e l'entusiastico che ho letto in rete (ad esempio questa e questa). Però neppure posso dire che Mia madre mi abbia colpito e coinvolto. D'altra parte, quando poi vado a rileggere le mie recensioni ai suoi film precedenti mi rendo conto che il mio rapporto con Moretti resta problematico in ogni caso.

In generale, mi piace di più il Moretti un po' surreale e visionario di film quali Habemus papam e Il caimano, nei quali il Nanni nazionale guarda fuori di sé, al mondo sociale, politico, umano che lo circonda, sebbene - anche in questi casi - l'obiettivo sia sempre quello di indagare i meandri della natura umana e, attraverso di essi, se stesso.

Anche in questi casi - a dire la verità - io e lui non riusciamo ad essere veramente sulla stessa lunghezza d'onda da un punto di vista emotivo; però riesco ad accettarne lo sguardo onirico, certe forme di rigidità, nonché la distanza che in qualche modo il regista mette sempre tra sé e i suoi personaggi e persino rispetto a se stesso.

Va a finire che quello che apprezzo di più nei suoi film è la componente ludica, fatta di un'ironia tagliente e cinica che non risparmia nessuno, ma che è anche a tratti liberatoria.

E così in Mia madre il personaggio di Barry Huggins, interpretato da uno strepitoso John Turturro, è quello che mi è arrivato in maniera più diretta e sincera. Ora, posso certamente comprendere il meccanismo intellettualistico e il gioco di specchi tra realtà e finzione su cui è giocato l'intero film, e capisco anche quanto sia voluto che proprio il personaggio dell'attore sia quello che appare più vero e umano.

Fin dalle prime scene, mentre la regista Margherita (Margherita Buy, nel film l'alter ego di Moretti) sta girando il suo film Noi siamo qui, è chiara la cifra morettiana: stare dentro le cose non è un'opzione per lui praticabile, perché raccontare significa in qualche modo rielaborare e rielaborare è un'operazione intellettualistica. E ciò è tanto più vero se sei un regista, abituato - anche ormai al di là della sua volontà - a ricostruire la presunta realtà attraverso la macchina da presa. Così, realtà e finzione si rincorrono e si rispecchiano, scambiandosi i ruoli in un inseguimento percettivo che produce la paralisi emotiva della protagonista.

Per tutti questi motivi, la vicenda della malattia della madre (Giulia Lazzarini) di Margherita e di Giovanni (lo stesso Nanni Moretti) e il faticoso percorso che conduce infine Margherita non solo a guardare in faccia la morte, ma anche a provare a ri-guardare la propria vita (il proprio essere donna, madre, professionista) non hanno prodotto in me un vero processo di identificazione, bensì semmai un'operazione intellettualistica uguale e contraria a quella condotta da Nanni Moretti.

Mi sono sentita anche io in balia di "quello stronzo del regista" e non perché mi abbia presa in giro, bensì perché, nel fare la sua operazione di sincerità rispetto a se stesso, ha inevitabilmente creato una distanza con la mia sensibilità.

Voto: 3/5

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