lunedì 24 settembre 2012

Pietà

Il film ha vinto il Leone d'Oro a Venezia e Kim Ki-Duk è una specie di mostro sacro della cinematografia contemporanea, osannato per l'originalità e la qualità della sua produzione. Dunque mi riesce difficile andare un pochino controcorrente.

In realtà a me Kim Ki-Duk piace, e anche molto. Ho adorato Ferro 3 - La casa vuota e mi erano anche piaciuti - nell'ordine - Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primaveraL'isola e Time. Di quei film avevo apprezzato lo stile narrativo del tutto alieno rispetto a quello occidentale, l'apparente illogicità delle azioni e delle sequenze narrative, la sottotrama fortemente simbolica, lo spazio di immaginazione lasciato allo spettatore.

Insomma, un film di Kim Ki-Duk rispetto ad uno occidentale è come la scrittura a ideogrammi a confronto con quella alfabetica, ossia una scrittura evocativa, esplorativa, apparentemente slegata nelle sue componenti, dai significati multipli, rispetto ad una basata su un'efficienza razionale puramente finalizzata alla comunicazione.

Per tutti questi motivi Pietà mi ha lasciata un po' interdetta. E non per lo squallore intrinseco che volutamente trasuda da ogni inquadratura, non per l'effetto disturbante prodotto da una crudeltà fredda e da un'umanità degradata (ha ragione Marianna Cappi di Mymovies quando scrive che in qualche modo torna in mente la trilogia sulla vendetta di Park Chan-Wook), non per alcuni passaggi narrativi illogici, non per qualche elemento di comicità involontaria ad una lettura occidentale, bensì per una sceneggiatura studiata a tavolino, che finisce per risultare eccessivamente didascalica.
Il cinquantenne (circa) Kim Ki-Duk deve essere a un momento della sua vita in cui - guardandosi intorno - vede una società in declino e un'umanità sempre più disumana, per effetto della corruzione dei soldi e della disgregazione dei legami affettivi, primariamente quelli familiari.

L'individuo senza affetti e collocato nelle nostre disumane metropoli diventa un mostro privo di scrupoli.

Questo è il protagonista Kang-Do (Lee Jung-Jin), che riscuote i debiti dei lavoratori di un'area artigianale e sempre più povera della città per conto di uno strozzino e, lì dove il debitore non abbia da pagare, lo storpia per incassare i soldi dell'assicurazione. Fino a quando incontra quella che sembrerebbe essere la madre che lo ha abbandonato da piccolo (Jo Min-Su) e che è pronta a subire qualunque cosa pur di essere perdonata.

Ma la verità non è come appare e la vendetta sarà terribile e catartica, come il finale sulle note - a mio avviso un po' stonate rispetto al contesto - del Kyrie Eleison/Miserere.
Kim Ki-Duk ci srotola davanti il suo ingranaggio narrativo, in cui ogni cosa trova un suo esito e a causa segue effetto. Il regista dice di aver voluto fare un film destinato alle "masse", con una portata "universale" e non a caso attinge anche ad un immaginario religioso che non gli è proprio (per quanto io legga che il Cristianesimo è la terza religione più diffusa in Corea e lo stesso regista ha avuto da giovane una crisi religiosa).

Forse è proprio questo il suo limite: aver voluto innestare una narrativa comprensibile in ogni angolo del pianeta sul proprio linguaggio culturalmente e geograficamente determinato, e soprattutto su una poetica che si è sempre caratterizzata per una cifra narrativa differente.

Insomma, il fatto è che un certo tipo di melò con tanto di morale in fondo lo posso accettare da un regista occidentale (e già mi dà un po' fastidio), ma non da Kim Ki-Duk da cui invece mi aspetto che mi spiazzi, mi sottragga elementi interpretativi, mi lasci senza una risposta.

Preparatevi comunque a uscire dal cinema come se qualcuno vi avesse dato un pugno nello stomaco.

Voto: 3/5


P.S. Consiglio la visione in lingua originale perché il doppiaggio è da dimenticare!

giovedì 20 settembre 2012

Ribelle - The brave


Vado a vedere Ribelle - The brave in 2D allo spettacolo delle 22,30 in una sala in cui siamo in tutto sei, di cui due bambine. E, d'altra parte, c'era da aspettaserlo...

Ma - in qualunque condizione - i film della Pixar rappresentano per me un'attrattiva irrinunciabile.

Innanzitutto perché c'è sempre il cortometraggio che precede il film e che di solito è una chicca. Ed anche questa volta la Pixar non si smentisce con il corto Luna che racconta di un ragazzino che in barca con due adulti (papà e nonno?) "getta l'ancora sulla luna piena" con il compito di spalare le luci per farne una luna nuova. Un romanzo di formazione in pochi minuti che ben dispone alla visione successiva.

Ed eccoci al film Ribelle che inizia con le migliori intenzioni: gli splendidi paesaggi scozzesi resi con una vividezza che ormai rende difficile distinguere un cartone da un film vero, la colonna sonora evocativa e una protagonista simpaticissima, Merida, principessa che si ribella al destino già scritto per lei, ossia quello di sposare il figlio di uno dei capi clan e governare il regno che suo padre ha unificato e liberato dalle guerre.

A Merida - con la sua folta chioma rossa - piace andare a cavallo, scoccare frecce, perdersi nei boschi, vivere a contatto con la natura, e questo ruolo e le rigide regole che lo caratterizzano le stanno troppo strette.

L'incontro con una strega e l'incantesimo che trasformerà sua madre in un orso daranno il via a una serie di avventure da cui Merida uscirà adulta, non cambiata, ma sicuramente più consapevole delle sue responsabilità, e sua madre più capace di comprenderne i desideri.

La prima parte del film è eccellente, in perfetto stile Pixar, con una storia politicamente scorretta e spunti divertenti per i bambini, ma anche ricchi di implicazioni per il pubblico adulto. Nella seconda metà - dall'incantesimo in poi - si assiste invece a un più tradizionale film Disney, con una storia più sempliciotta, l'elemento dell'avventura, le canzoni di Noemi e la ricomposizione finale.

E il significato di secondo livello resta talmente sottotraccia da risultare quasi invisibile.

Va detto che - in generale - a parte il personaggio principale di Merida e la mamma orsa (entrambe con una resa nelle espressioni assolutamente straordinaria), gli altri personaggi (a cominciare dal padre fino ad arrivare ai capi clan e ai loro figli) quasi non sembrano uscire dai laboratori Pixar, mentre sono perfettamente in linea con la tradizione Disney.

Non si può dire di uscire dal cinema scontenti. Al contrario! Però la Pixar ci ha abituati talmente bene che in qualche modo ci saremmo aspettati di più, visto che le premesse c'erano tutte.

Voto: 3/5

lunedì 17 settembre 2012

Io sono Li

La scorsa è stata proprio una settimana cinematografica!

Dopo The reluctant fundamentalist, sono andata a vedere un altro film in lingua originale con i sottotitoli... ma italiano!

Io sono Li è infatti ambientato in buona parte a Chioggia e i protagonisti sono in parte cinesi (sottotitolati per evidenti motivi), in parte chioggiotti (anch'essi necessitanti di sottotitoli!).

In un certo senso, questa doppia necessità è una metafora del film, che mette una di fronte all'altra due comunità lontanissime, ma entrambe accartocciate su se stesse, sulle proprie regole e i propri pregiudizi.

Protagonisti ed elementi scatenanti delle idiosincrasie di queste due comunità sono Shun Li (Zhao Tao), una donna cinese che da una fabbrica tessile romana viene spedita a Chioggia a lavorare in un'osteria per pagare i suoi debiti e consentire a suo figlio di venire in Italia, e Bepi (Rade Sherbedgia), "il poeta", un pescatore di origini slave che vive da trent'anni a Chioggia e ha un casone in laguna.

Intorno a loro si muovono e si agitano le rispettive comunità. Quella cinese in cui pochi uomini governano le sorti dei molti altri, veri e propri schiavi appesi al filo della speranza, soprattutto donne trattate come oggetti, ma ricche di sogni e di pensieri non sempre espressi. E quella chioggiotta che si incontra in osteria per bere un'"ombra" e mangiare le canocchie e il pesce fritto e parlare di quello che accade nella città-isola, cercando di interpretare in maniera semplice e spesso semplificata un mondo che si è fatto ormai troppo complesso e dove i soldi ormai si fanno senza fatica anche se in modo poco chiaro, come ostenta il bullo Devis (Giuseppe Battiston).

In questo mondo in cui il tempo sembra scorrere lentissimo e ripetitivo, Shun Li e Bepi si incontrano, si aprono, si raccontano, si fanno compagnia in modo disinteressato e sincero. Ma non saranno capiti da nessuno, non dai cinesi che preferiscono un'esistenza sottotraccia, non dai chioggiotti che pensano che il mondo finisca nella loro isola.

Bellissima ed emozionante la fotografia di Luca Bigazzi, in sintonia con le musiche e con l'atmosfera smorzata di questo racconto, come il tai-chi che la coinquilina di Li pratica sulla spiaggia. Non c'è una parola di troppo, i silenzi e gli sguardi sono parte fondamentale della storia, come accade nella vita. Non tutto è spiegato, molto resta avvolto nel mistero come questa città sommersa dall'acqua e dalla nebbia.

Delicato, poetico, vero, gentile.

Un soffio di bellezza e di tristezza da cui vale la pena farsi accarezzare.
Bravo Andrea Segre.

Voto: 4/5

venerdì 14 settembre 2012

The reluctant fundamentalist

Sempre perché la città offre molto ed uno dei motivi per cui vale la pena viverci è sfruttare questa offerta, non potevo perdermi il classico appuntamento della rassegna "Da Venezia a Roma" che - a pochi giorni dal festival veneziano - porta nei cinema della città eterna, in lingua originale, una parte dei film lì presentati.

Guardando il programma scegliamo The reluctant fundamentalist perché tra quelli proposti per il mercoledì è l'unico non italiano, che possiamo dunque gustarci in lingua originale, e forse è uno di quelli che non è di immediata uscita in Italia. Tra l'altro, la regista Mira Nair ha realizzato nella sua carriera molte cose interessanti (si pensi a Monsoon Wedding), sebbene i risultati siano stati un po' altalenanti.

In realtà poco prima di inforcare lo scooter verso il cinema leggo una recensione a dir poco demotivante e così mi preparo psicologicamente a un retorico polpettone.

Il rischio del resto c'è tutto, vista la storia. Changez (il bravo e bello Riz Ahmed), che come lui stesso tiene a sottolineare si pronuncia Cian-ghès, è un pakistano di Lahore appartenente a una famiglia della borghesia intellettuale pakistana, ormai surclassata dalla classe dei nuovi ricchi. A 18 anni Changez va a studiare Economia a New York e subito dopo la laurea, grazie al suo essere brillante e competitivo, si conquista quasi subito il posto in una importante azienda che fa analisi finanziarie, divenendone il più giovane socio. Si innamora di Erica (Kate Hudson), di famiglia ricca e che si porta dietro il senso di colpa per la morte del suo fidanzato, ma si lascia conquistare dal giovane e rampante pakistano. Fino all'11 settembre 2001, alle Torri Gemelle, al clima di sospetto, all'inasprirsi delle tensioni e alla crisi personale di Changez che ha il suo culmine durante un viaggio a Istanbul. Changez decide così di lasciare tutto e tornare in Pakistan a insegnare all'università, convinto che esista la possibilità di un "sogno pakistano". Il tutto raccontato in un lungo flashback cui si alternano le vicende del presente.

Alla fine della visione il mio bilancio è positivo: non ho trovato il film noioso (anzi credo che gli sceneggiatori abbiano fatto un lavoro straordinario per trasformare quello che nel libro di Mohsin Hamid è sostanzialmente un monologo in qualcosa di cinematograficamente vedibile), l'ho trovato sufficientemente retorico ma non troppo, l'ho trovato attuale (nonostante si richiami a quell'11 settembre che alcuni dicono ormai lontano).

Qualcuno scrive "verboso", tutto affidato alla parola per dirci cose che già sapevamo, "timido" nel proporre la propria tesi, incapace di osare. Alla fine però io credo che mettere in fila le tante cose che ci sono nel film è già un merito sufficiente.

Forse il difetto vero è che dentro il film (non so se anche dentro il libro che non ho letto) si affollano troppi temi, tutti troppo complessi e importanti per poter essere esauriti in una trattazione così piena di contenuti. C'è il mito americano della competizione e dell'essere migliori, le dinamiche economiche e finanziarie globali, il "sogno americano" e le sue fragili basi, i rapporti tra le classi sociali, l'emigrazione e il difficile rapporto con le proprie origini, il terrorismo islamico, le semplificazioni americane, i fondamentalismi di varia estrazione, i rapporti interrazziali, i limiti della multietnica società americana.

Insomma, ce n'è per tutti e per tutti i gusti, e alla fine è indubbio che qualche melodrammaticità (vedi il viaggio di Changez in traghetto sul Bosforo con canzone a tema in sottofondo) e retorica non si riescano ad evitare. Certo, però, resta un film duro e - per molti versi - politicamente scorretto rispetto a tematiche su cui in questi dieci anni hanno spopolato o la retorica occidentale ovvero il luddismo islamico.

E sentir paragonare i giovani che dal mondo islamico vanno a studiare e poi a lavorare in America ai giannizzeri, giovani cristiani cresciuti per entrare nell'esercito del Sultano, fa decisamente effetto.

Scrive Matt Mueller: "[…] the bigger question is whether American audiences will be willing to go see a film where the hero flashes a jubilant smile at the TV screen as the planes slam into the World Trade Centre, confessing, “In this moment, I should have felt sorrow or anger but all I felt was awe.”

Voto: 3/5


"The Reluctant Fundamentalist" opens Venice Film... di reuters

martedì 11 settembre 2012

In mezzo al mare: cinque atti comici / Mattia Torre

In mezzo al mare: cinque atti comici / Mattia Torre. Milano: Baldini Castoldi Dalai editore, 2012.

Mattia Torre è quello del trio Torre-Ciarrapico-Vendruscolo, sceneggiatori - tra le altre cose - della serie Boris e del relativo film.

Ovviamente Torre non è solo questo, ma anche autore teatrale, peraltro vincitore di premi.

Lo dico però semplicemente per inquadrare lo stile che probabilmente chi già lo conosce nella veste di sceneggiatore ritroverà in questi cinque atti comici (che poi sono anche in parte tragici).

Complessivamente ne viene fuori l'immagine agrodolce, il carattere divertente e disperato, la componente indifesa e cinica dell'Italia e degli italiani, ma anche dell'umanità tutta, appesa al significato incomprensibile della propria esistenza.

Il primo atto, In mezzo al mare (da cui prende il titolo il libro), racconta di un giocatore di ping pong che ama Elena, ma è completamente perso nell'insensatezza del mondo circostante, incapace di comprendere anche le cose più semplici, la cui inettitudine è in grado di giustificare la sua pericolosità emotiva.

Gola, il secondo atto (in fondo al post il monologo recitato da Valerio Mastandrea), è un pezzo a dir poco esilarante, in cui ci si fa beffe della vera e propria ossessione degli italiani per il cibo, in cui si spiega come e perché l'atto e il pensiero del mangiare rappresentano una priorità assoluta nella vita di noi tutti,

Colpa di un altro è una brevissima, ma efficace riflessione su quel processo di scaricabarile che costituisce un vero e proprio sport nazionale, quello in cui gli italiani vantano certamente il primato mondiale assoluto.

Con Yes I can viene in qualche modo messo alla berlina il mito della ricchezza e del potere e, soprattutto, l'idea di una società che non ne può fare a meno.

Infine, Il migliore è la storia di un bravo ragazzo, un po' sfigato ma buono, direi buonissimo, operatore di call center, un po' maltrattato dalla vita, con un bel po' di guai fisici e relazionali. Fino a che un giorno, assolto pur essendo colpevole, tira fuori la parte cinica, cattiva e sprezzante di sé, e improvvisamente il successo e la fortuna gli sorridono e la vita gli offre tutto quello che il suo precedente atteggiamento dimesso gli avevano negato.

Il libro si legge in un pomeriggio e lascia dentro una lunga coda di pensieri, in cui allegria e inquietudine si mescolano inscindibilmente. Una scrittura arguta, mai banale, che apre la mente e fa riflettere.

"issimo, issima" - come Mattia Torre ripete come un mantra ne Il migliore.

Voto: 4,5/5



venerdì 7 settembre 2012

La lunga estate calda del commissario Charitos / Petros Markaris

La lunga estate calda del commissario Charitos / Petros Markaris; trad. di Andrea Di Gregorio. Milano: Bompiani, 2012.

Decido di cominciare le mie vacanze nelle isolette della Grecia ionica con la lettura di un romanzo perfettamente in tema con la mia destinazione, ossia uno dei polizieschi di Markaris con protagonista il commissario Kostas Charitos.

Non avevo ancora letto niente di questa serie ma l'ambientazione greca mi incuriosiva già da un po'. E devo dire che le aspettative non sono state deluse.

La lettura del romanzo è risultata gradevole e scorrevole sia per la presenza del commissario Charitos (simpaticissimo!) e del mondo che gli ruota attorno, dalla famiglia (la moglie Adriana, la figlia Caterina e il genero Fanis) ai colleghi di lavoro, sia dal punto di vista della storia raccontata, che di fatto ne contiene due: il sequestro del traghetto El Greco (su cui si trovano anche la figlia e il genero del commissario) da parte di un gruppo di terroristi greci di estrema destra e una serie di omicidi di persone legate al mondo della pubblicità.

Come spesso accade in questa tipologia di romanzi, la storia e i suoi personaggi sono perfettamente inseriti nel loro contesto geografico e culturale, e dunque la lettura getta luce su queste realtà, creando curiosità, permettendoci di osservarle quasi dall'interno e di conoscere vicende storiche, atteggiamenti culturali, idiosincrasie, vizi e virtù nazionali, nonché abitudini di vita e culinarie.

Non certo un giallo pretenzioso avente l'obiettivo di mettere alla prova l'arguzia e l'ingegno del lettore, ma certamente una lettura non noiosa e perfettamente in linea con l'atmosfera di una vacanza greca e con i sentimenti contrastanti che suscita questo paese, bellissimo ma in qualche modo incapace di scrollarsi di dosso i peccati originali che porta impressi nel proprio DNA.
E chi meglio di noi italiani può capirlo? Del resto, non si dice "una faccia, una razza"? ;-)

A questo proposito, appare sintomatica la riflessione che a più riprese emerge dal romanzo in merito alle Olimpiadi ateniesi del 2004. Da un lato motivo di straordinario orgoglio per l'intera nazione di fronte al mondo in quanto si è dimostrata capace di assolvere in modo egregio a un impegno così importante, dall'altro una specie di sospensione temporale da una quotidianità che al termine delle Olimpiadi è ripresa quasi più grigia e incancrenita di prima. Non a caso i primi due omicidi sono ambientati negli spazi che durante le Olimpiadi ospitarono le gare, impianti costosissimi ora abbandonati e diventati rifugio di diseredati.

Voto: 3,5/5

giovedì 6 settembre 2012

Monsieur Lazhar


Siamo a Montréal, città civile e moderna del Quebec, in cui non manca la neve, ma neppure la ricchezza e la tranquillità.

Siamo in una scuola dove gli insegnanti si fanno dare del tu dagli alunni, l'integrazione è una realtà consolidata, i banchi sono disposti a semicerchio per favorire lo spirito di gruppo, c'è la psicologa per sostenere i turbamenti emotivi dei bambini, il rapporto con i genitori è tenuto in alta considerazione, i programmi ministeriali e le regole di una scuola moderna vengono tutti rispettati.

Insomma siamo nel nostro evoluto mondo occidentale, quello di cui ci facciamo vanto per i risultati di civiltà che abbiamo raggiunto.

In questa scuola una classe deve affrontare la morte tragica della propria insegnante (e non dirò altro per evitare spoilers).

Si tratta della scuola dove arriva Bachir Lazhar (Fellag), un algerino di mezza età che ha alle spalle una dolorosa storia familiare e sta cercando una nuova vita in Canada. Un uomo all'antica in una scuola moderna.
Un uomo per il quale la dignità e il contegno sono solidi principi di vita.

Bachir Lazhar - pur non avendo alcuna esperienza - diventerà insegnante nella classe i cui allievi si trovano ad affrontare il dolore e la violenza di questa tragica morte con i fragili strumenti emotivi di cui sono dotati, per quanto siano svegli e precoci come si addice ai bambini moderni.

Monsieur Lazhar appare decontestualizzato, quasi buffo e maldestro nell'approcciare questi bambini in un modo un po' antico e al contempo tentando - senza troppa convinzione - di allinearsi alle modalità dei suoi colleghi.

Ma, nonostante tutto e forse proprio grazie alla sua anomalia, l'incontro tra Monsieur Lazhar e i bambini della sua classe sarà un incontro speciale, intenso, un rapporto umano complesso e profondo, che come tutti i rapporti umani veri richiede tempo e non è mai concluso.

La presenza di Bachir Lazhar in questo mondo ne fa venire fuori tutte le contraddizioni.

I bambini dimostrano una complessità emotiva elevata, una sorprendente capacità di affrontare e interpretare gli eventi, una necessità forte di guardare in faccia la realtà e darne una spiegazione. In questo processo hanno bisogno di essere accompagnati dagli adulti, adulti solidi, che svolgano appieno il loro ruolo, che non deleghino all'esterno la gestione dell'aspetto emotivo per occuparsi solo di quello pratico, che sappiano definire ruoli e confini ma al contempo far percepire la loro vicinanza .

Gli adulti - genitori e insegnanti - risultano invece spaventati o assenti, rimuovono il dolore o lo enfatizzano, più preoccupati del rispetto delle regole e della necessità di tracciare dei confini che della propria responsabilità nello svolgere fino in fondo la loro parte.

I bambini hanno le potenzialità (forse in qualche modo intrinseche alla natura umana) per affrontare grossi traumi, sono "crisalidi nel loro fragile bozzolo" come nella favola che Bachir racconta loro per salutarli, gli adulti di questo mondo civilizzato ed evoluto appaiono invece disorientati e cercano scorciatoie al peso delle responsabilità, alla necessità del dolore, finendo imbrigliati nella maglie strette della forma.

Monsieur Lazhar nella sua naiveté scompagina le carte: i bambini si riappropriano così della loro vera dimensione, quella di bambini ma senza quella patina edulcorata  e zuccherosa né quella pretesa di maturità che la nostra società gli impone. Il modo in cui i bambini sono raccontati in questo film mi ha ricordato il libro Sabotaggio d'amore, per il disvelamento a volte destabilizzante del loro mondo niente affatto ingenuo, che certo va aiutato ma in alcuni casi anche lasciato comporsi nella sua dimensione adulta.

Qualcuno una volta mi ha detto che i bambini non sono così e che io parlo da non genitore.

Ma chissà, forse il sano distacco di chi non è "aggravato" dal ruolo di padre o di madre (e dalle sue complessità) può aiutare a guardare con occhi più sereni e forse più realistici tematiche certamente controverse come quelle affrontate nel film: la famiglia, il ruolo della scuola, la dinamica insegnante-allievi, il rapporto tra insegnamento ed educazione, l'approccio dei bambini alla violenza e alla morte.

Mi ha sorpreso scoprire sui titoli di coda che si tratta dell'adattamento di un'opera teatrale. Doppio plauso dunque al regista e sceneggiatore Philippe Falardeau (la cui biografia è tra l'altro interessantissima!) per il perfetto adattamento cinematografico.

Ah, dimenticavo. Andatelo a vedere in lingua originale se potete.

Voto: 4,5/5