martedì 1 novembre 2011

This must be the place

Il film di Sorrentino potrebbe essere considerato uno straordinario saggio finale di una scuola di cinematografia, una vera e propria lezione di cinematografia a tutto tondo.

Perché dentro This must be the place c’è moltissima qualità e arte cinematografica, una specie di antologia delle possibilità che sono in mano a un regista che sappia utilizzarle.

A cominciare dalla straordinaria fotografia di Luca Bigazzi. Non solo per quegli sguardi infiniti e meravigliati sulla profonda America, con quel contrasto esasperato tra l’incredibile bellezza della natura e dei paesaggi e la bruttezza e lo squallore di certa presenza umana. Ma anche e soprattutto per la cura con cui ogni singola scena è stata pensata, ritratta e offerta al pubblico, sfruttando colori, luci e forme.

Per non parlare della musica, co-protagonista del film insieme a Sean Penn. La musica è onnipresente. Intanto perché il protagonista Cheyenne è una ex popstar ormai cinquantenne che oscilla tra l’annoiato e il depresso, tra il cinico e l’ingenuo, uno che in qualche modo ha avuto tutto dalla vita: l’amore di una donna forte e ironica (una notevole Frances McDormand nel ruolo di Jane), la ricchezza che gli ha permesso di comprare una villa incredibile la cui piscina non è mai stata riempita perché utilizzata per giocare partite a pelota all’ultimo sangue tra lui e sua moglie, la notorietà conservata ancora a distanza di anni.

Lo stesso titolo del film, This must be the place, è tratto da una canzone dei Talking heads che - a un certo punto del suo viaggio on the road - Cheyenne canta insieme ad un ragazzino di otto anni - un po’ obeso - che pensa che questa canzone sia degli Arcade Fire.

E poi c’è il cameo di David Byrne nel ruolo di se stesso, ancora originale e affascinante sul palco, ancora pieno di idee.
Infine, c’è una colonna sonora che non fa solo da sottofondo, ma sottolinea, accompagna, interviene, sostituisce. Una colonna sonora (per gran parte dello stesso Byrne) di grandissima qualità.

Una parola va spesa certamente anche per il montaggio, che qui non è soltanto stratagemma cinematografico per mantenere comprensibilità e ritmo a un racconto ricco di episodi e personaggi, bensì è utilizzato in maniera non convenzionale per mescolare e allontanare i segmenti narrativi collegati e distinti che compongono la storia, apparentemente un collage di storie senza relazione tra di loro, in realtà un percorso fatto di rimandi interni e di legami concettuali e narrativi. Gli inserti di montaggio che giocano su brevissime sequenze di anticipazione o posticipazione (flashback e flashforward), spingono lo spettatore in avanti o indietro creando sorpresa, smentite o conferme al processo di ricostruzione mentale che ognuno fa nella propria mente.

Non ultima va menzionata la sceneggiatura, anch’essa in qualche modo antologica. Infatti, in This must be the place i dialoghi non sono quasi mai banali, come nella realtà accade per il 90% delle nostre conversazioni, bensì comunicano un’arguzia, un’ironia, una profondità o anche solo una selezione verbale decisamente superiori alla media.

Infine, non si possono dimenticare i personaggi, a cominciare da Cheyenne cui Sean Penn regala umanità nonostante la sua caratterizzazione decisamente e costantemente sopra le righe. Ma anche Jane, la moglie, e poi Mary (Eve Hewson), la ragazza dark che Cheyenne vorrebbe far fidanzare con il cameriere del fast food, l’insegnante anziana che vive in una casa piena di bambole con i tendaggi a fiori, la giovane donna (Kerry Condon) che vive con il figlioletto obeso nel paese dove c’è la scultura del pistacchio più grande del mondo, il cacciatore di nazisti ormai assuefatto allo showbiz, l'inventore del trolley e infine il vecchio gerarca nazista che ha scelto di andare a vivere ai confini del mondo. Anche in questo caso non si può certo parlare di un’umanità banale o comune, ma di una specie di excerpta di una società umana vista da un angolo visuale inusuale.

Qual è il risultato di tutto questo? Un film cinematograficamente perfetto, in cui però la cura estrema del dettaglio e la sensazione che tutto sia studiato a tavolino in maniera quasi maniacale tolgono naturalezza e rendono lo spettatore un fruitore passivo e poco partecipe della poesia e della dinamica emotiva che pure il film prevederebbe.

Non si può certo dire che Sorrentino sia un regista di pancia (i suoi film precedenti tra cui il bellissimo Le conseguenze dell’amore avevano già messo a nudo questo approccio glaciale, ma al contempo molto interno, ai sentimenti umani); qui forse l’intellettualismo e un certo manierismo cinematografico gli prendono un po’ la mano, anche in risposta all’esame importante di fare un film con un respiro internazionale, con protagonista una grande star hollywodiana e destinato a un pubblico non solo italiano.

A questo proposito, devo dire che non riesco a spiegare diversamente alcune scelte del regista che sono obiettivamente lontane dal suo stile un po’ implicito ed involuto, in particolare il finale: personalmente avrei fatto finire il film con la sgommata del SUV sulla neve, evitando sia la dimostrazione del teorema del “romanzo di formazione di un cinquantenne” con la scena in aeroporto e l’accensione della prima sigaretta di Cheyenne, sia la scena finale di Cheyenne/Tony che torna in Irlanda dalla madre che ha perso suo figlio.

In qualche modo, anche la questione ebrea e la vendetta messa in atto nei confronti del gerarca nazista ormai novantenne mi sono sembrati più una concessione un po’ melodrammatica al pubblico americano, che un reale valore aggiunto narrativo. In fin dei conti la morte del padre di Cheyenne e la di lui ossessione per il ritrovamento del criminale sono – e forse dovevano rimanere – più un pretesto per raccontare di quest'uomo un po’ bambino – e con lui di quella generazione segnata dal boom economico e da certa superficialità anni ’80 – e del suo affrancamento da se stesso e dalle sue paure.

Insomma, Sorrentino è un grande regista e This must be the place è certamente un film da vedere (che solo un americano può definire lento), ma forse l’ansia da prestazione ha tolto un po’ di quel potenziale valore aggiunto che poteva derivare dall’incontro di due mondi culturali e cinematografici così diversi.

Ah... dimenticavo: da vedere assolutamente in lingua originale!

Voto: 3,5/5

3 commenti:

  1. Bello. Concordo con l'ansia da prestazione hollywoodiana, con il fatto che abbia voluto mettere un po' troppi spunti che finiscono per diluire la storia, ma mi è piaciuto molto. Le musiche mi hanno continuato a tenere compagnia ben oltre i titoli di coda come pure l'espressione splendida di Cheyenne quando scopre che il suo interlocutore è l'inventore della 'valigia con le ruote'. Penn dona al suo personaggio una recitazione rallentata, impacciata, ingolfata da un passato di eccessi e un presente di noia, eppure in quell'istante, nel momento della rivelazione, per un attimo gli sfolgora un entusiasmo negli occhi. Saluti! A.

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    1. Grazie. Elementi in più per godere di questo film!

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