venerdì 17 giugno 2011

Corpo celeste

Marta (la bravissima Yle Vianello), o Martina, come più affettuosamente la chiama la mamma, è una ragazzina di 13 anni, che è tornata a vivere - insieme a sua madre Rita (Anita Caprioli) e sua sorella maggiore(Maria Luisa De Crescenzo) - alla periferia di Reggio Calabria, dopo molti anni vissuti in Svizzera.

I motivi di questo ritorno non sono svelati. Forse un padre svizzero che li ha abbandonate (o che è morto, come dice con sicurezza qualche recensione), costringendole a tornare in un contesto familiare dove per Rita è più facile trovare un lavoro, per quanto faticoso e pesante (lavora in un'attività di panificazione), e consentire alla sua famiglia di vivere dignitosamente.

La grettezza della mentalità, lo squallore dei paesaggi (cementificazione a perdita d'occhio, abusivismo edilizio, costruzioni non finite, fiumare piene di erba incolta e immondizia), l'ignoranza diffusa, i meccanismi di scambio elettorale, il prevalere dei modelli televisivi costituiscono il fluido vischioso in cui si muove l'anima in formazione di Marta.

E, nei suoi occhi, chi non è troppo distante cronologicamente da quell'età difficile riconosce quel processo di amplificazione emotiva, quella sensazione di essere senza pelle, quell'insieme di tenerezza, allegria e tristezza che è tipica di quella fase della vita.

I due piccoli mondi in cui si svolge la vita di Marta, quello familiare caratterizzato da una mamma dolcissima, ma essa stessa un po' bambina, e una sorella che manifesta un inspiegabile rancore e forse invidia un po' il rapporto tra sua madre e Marta, e quello della parrocchia, dominato da un parroco (Salvatore Cantalupo) intristito dalla perdita di qualunque motivazione, una catechista (Pasqualina Scuncia) che sembra avere in questo ruolo l'unico scopo della sua vita, un variopinto e - al contempo - spento gruppo di adolescenti, una comunità in cui la religione è l'involucro formale che permea un vuoto sostanziale, un codice interpretativo incapace di comprendere la complessità del presente.

Il film si sviluppa come una tenaglia che, fin dal principio, comunica un senso di soffocamento, di mancanza di libertà - anche quando ci fa sorridere e ridere - per poi stringersi intorno al cuore, in un crescendo di ansia che si scioglie - strozzata - solo tra le mani di Marta in cui guizza la coda tagliata di una lucertola: "È ancora viva".

Perché quello di Alice Rohrwacher è un film pieno di speranza. La speranza che passa per gli occhi di Marta quando sale sul terrazzo per guardare lontano, quando sfiora con le dita leggere il "crocifisso figurativo", quando guarda le ombre tremolanti con cui il movimento del lampadario trasfigura la cucina, quando cammina per la strada con il vento che sospinge tutto, quando attraversa il sottopassaggio invaso dall'acqua con il vestito bianco della cresima. È la speranza di chi è ancora capace di vedere le cose con occhi puliti e nuovi. Un inno alla ricchezza della diversità, che ancora una volta (come ne Il primo incarico) si incarna nel volto di una donna (questa volta giovanissima), che al Sud appartiene senza esserne posseduta.

Voto: 4/5

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