domenica 31 gennaio 2010

Il riccio

Confesso. Il libro (L'eleganza del riccio) non l'ho letto, nonostante mi sia stato regalato ormai diversi mesi fa da un'amica. Ma con i libri io sono fatta così... Non li degno a lungo di uno sguardo, fino a quando una vocina interiore mi spinge a leggerli. In questo caso, poi, il gran tam tam mediatico che ha suscitato me lo ha reso inviso e, dunque, aspetto il momento in cui tutti se ne saranno dimenticati per leggerlo.

E, dunque, - come dicevo - il libro non l'ho letto e, quindi, non sono in grado di dire se Muriel Barbery ha ragione ad essersi arrabbiata così tanto per questa trasposizione cinematografica, al punto da disconoscerla e da costringere la regista Mona Achache ad usare la formula "Liberamente tratto da...". In ogni caso, non importa, perché fondamentalmente credo che tutte le volte che un film è tratto da un libro questo confronto competitivo tra i due sia totalmente insensato. Si tratta di linguaggi profondamenti diversi e che puntano su un diverso rapporto con il lettore/spettatore, i punti di forza dell'uno sono quelli di debolezza dell'altro e viceversa. In pratica, hanno in comune solo la storia, che nelle realizzazioni migliori è la cosa meno importante, in un caso come nell'altro.

Perciò, tutto sommato, meno male che non ho letto il libro perché questo mi permette di dare un giudizio più spassionato e sereno sul film.
La storia è piuttosto semplice e ruota intorno a tre personaggi che vivono in uno stabile di un quartiere alto-borghese di Parigi: Renée Michelle (Josiane Balasko), la portinaia, Paloma (Garance Le Guillermic), la figlia quasi dodicenne di un Ministro, e Kakuro (Togo Igawa), distinto signore giapponese che va ad abitare nel palazzo dopo la morte di un inquilino.
Renée è il prototipo della portinaia, sciatta, brutta e ignorante, Paloma è una bambina troppo sveglia per la sua età che ha deciso di suicidarsi il giorno del suo dodicesimo compleanno, Kakuro è il pigmalione che aiuterà a svelare la vera natura delle cose.

Insomma, apparentemente è un po' una favoletta, un po' una Cenerentola rivisitata. Ma... nella sua apparente semplicità l'ho trovato "elegante" appunto, capace con una sostanziale leggerezza di toccare temi importanti: l'insensatezza e l'implosione della società borghese, il divario tra essere ed apparire, l'incomunicabilità e l'incapacità di entrare realmente in relazione con gli altri, la tristezza della ripetitività cui siamo condannati e, ancora una volta, il senso della vita e della morte.

Quanto mi piace la metafora che Paloma utilizza per rappresentare le persone che ha intorno! Dei pesci rossi in una boccia di vetro, destinati a girare in tondo e a cozzare sempre con gli stessi limiti fisici e mentali.
Non so se vi ricordate il manifesto pubblicitario dello spettacolo Delirio di Beppe Grillo. Ebbene, ogni tanto dico che tutti noi sembriamo proprio quel pesce rosso, non solo siamo in una boccia di vetro, ma non sappiamo che quella boccia di vetro è un frullatore pronto insensatamente a stritolarci. E certe volte non c'è dubbio sul fatto che io mi senta un pesce rosso nel frullatore...

E allora, come si sfugge a quel destino che, come dice Paloma, tutti in qualche modo abbiamo già scritto sulla fronte? Meglio morire prima di finire nella boccia di vetro di una vita standardizzata, incolore e infelice? O forse la strada è coltivare il proprio spazio di ricchezza interiore, il proprio tesoro di sensibilità racchiuso dietro una porta chiusa a chiave o sotto una corazza di aculei? O ancora la strada è mantenere uno sguardo curioso e pulito sul mondo e sugli altri per riconoscere la bellezza anche dove non è apparente e per scoprire dove si annidano quei piccoli tesori nascosti allo sguardo dei più?

Il pesciolino rosso in fondo non è stupido e rassegnato come sembra; e se un insospettabile istinto di sopravvivenza lo fa ricomparire nello scarico di Renée è perché bisogna sempre darsi un'altra possibilità.

Voto: 3,5/5

giovedì 28 gennaio 2010

La prima cosa bella

Devo ammetterlo. Anche stavolta ho pianto, ma quello che è ancora più incredibile è che Virzì è riuscito anche a farmi ridere tra le lacrime.

Certo, Virzì non è nuovo a "commedie" mature e intelligenti (si pensi a Ovosodo, a Caterina va in città o al recente Tutta la vita davanti), ma La prima cosa bella, secondo me, raggiunge un equilibrio, una compattezza e una verità che spesso fanno difetto ai film italiani.

Sul risultato finale non è indifferente la stroardinaria prova attoriale di Stefania Sandrelli, di Claudia Pandolfi e soprattutto del sublime Valerio Mastandrea (ma questo non ci meraviglia più) e della sorprendente Micaela Ramazzotti.

Qualcuno potrebbe dire che è un film un po' furbo e un po' ruffiano, perché l'ambientazione livornese (patria del regista), la vena nostalgica del passato (anni Settanta e Ottanta con il loro corredo musicale) e, soprattutto, una storia forte di sentimenti familiari sono tutte strizzatine d'occhio ad un pubblico pronto a emozionarsi. Ma... il fatto è che non c'è niente di finto in quello che vediamo sullo schermo ed è per questo che Virzì colpisce dritti al cuore.

Il rapporto tra Anna (Micaela Ramazzotti da giovane e poi Stefania Sandrelli) e i suoi due figli, Bruno (da adulto, Valerio Mastandrea) e Valeria (da adulta, Claudia Pandolfi), è tratteggiato con una sincerità che non può lasciare indifferenti. Forse non abbiamo avuto una madre come Anna, dotata di una vitalità straordinaria che la rende una vera e propria calamita sociale, ma al contempo semplice ai limiti dell'imbarazzante, capace di amare i suoi figli con intensità straordinaria, ma sentimentalmente ingenua ed infantile; una personalità sovrabbondante e ingombrante, soprattutto in relazione al divenire adulti dei suoi figli.

Forse non abbiamo avuto una mamma così, ma certo tutti abbiamo dovuto fare i conti, come Bruno e Valeria, con la necessità e spesso l'incapacità di definire noi stessi e la nostra individualità non semplicemente per reazione o adesione al modello paterno o materno che ci è toccato in sorte.
E sappiamo che non serve fuggire o restare, perché dai propri genitori non si divorzia ed è la vita stessa che prima o poi ci mette di fronte a loro (fisicamente o psicologicamente) per sciogliere il nodo del nostro essere persone.

Bruno è un depresso e un infelice, vittima dell'amore eccessivo e inafferrabile di una madre da cui si sente tradito; sfugge prima di tutto a se stesso (ma andare a Milano non gli è servito a molto), perché in realtà non ne riesce a prendere realmente le distanze e a percepirsi finalmente come altro.
Valeria, apparentemente più distaccata e risolta, in realtà fa altrettanta fatica ad affermare se stessa, abituata com'è ad una subalternità e accondiscenza che le impediscono di sbocciare una volta per tutte, incatenata nel ruolo di moglie e madre seria e matura.

E questa madre che ha divorato la vita, trascinando inevitabilmente anche i suoi figli in un vortice difficile da governare ("Quante ne abbiamo passate, però... ci siamo divertiti, vero?), questa madre apparentemente svampita e superficiale, è l'unica che, più o meno consapevolmente, è capace di leggere l'animo dei suoi figli, senza per questo poter risolvere né il proprio né il loro groviglio interiore.

D'altra parte, solo la sua assenza consentirà a Valeria e a Bruno di mettersi infine di fronte a se stessi e di riconoscere senza distorsioni la propria identità, in quel fluire senza soluzioni di continuità di nascita e morte che è l'esistenza umana.

A cinici e intellettuali snob questo film forse non piacerà, ma trovo che a volte la semplicità non è un limite, né un difetto. E riconoscere le proprie emozioni non è certo un delitto.

Voto: 4/5

domenica 24 gennaio 2010

Tra le nuvole

Partiamo dalla fine: il mio voto non sarà 5/5 e nemmeno 4/5 come ho visto in molte recensioni anche autorevoli in rete e su carta, perché il film ha di certo innegabili meriti ma non mi ha del tutto convinto.

Indubbiamente Jason Reitman fa un'operazione eccellente, utilizzando i canoni e il linguaggio tipici della commedia americana per veicolare temi e riflessioni molto più complessi e meno clear-cut, come direbbero gli americani.

Non v'è dubbio che il tema è di quelli estremamente caldi, la crisi economica e i conseguenti licenziamenti di massa che le aziende americane stanno operando, anche con l'aiuto dei "cacciatori di teste", incaricati di comunicare ai dipendenti il loro licenziamento per conto dei manager.

Ryan Bingham (George Clooney) è proprio uno di loro, uomo vicino alla mezza età che ha fatto del proprio lavoro l'occasione per sviluppare e mettere in atto una filosofia di vita, quella che egli stesso definisce "dello zaino vuoto". In pratica, Bingham teorizza che ciò che possediamo (oggetti, casa, macchina ecc.) e i legami che costruiamo (famiglia, moglie, figli, amici) sono il fardello più pesante che ci portiamo dietro, quello che ci impedisce di essere realmente liberi.

Ancora una volta (come già aveva fatto in parte con Juno), Reitman, che qui è anche sceneggiatore, riesce ad affiancare sapientemente ad una tematica di sistema, la crisi economica, una più privata, ma allo stesso tempo universale, quella del difficile equilibrio tra libertà individuale e bisogno di radici e di una rete stabile di relazioni. E ne parla in particolare attraverso il rapporto tra Bingham e due donne: Alex (Vera Farmiga), donna manager come lui sempre in volo e in transizione da una città ad un'altra, e Nicole (Anna Kendrick), giovanissima collega che lo affianca per un po' per "imparare il mestiere".

Bello il confronto generazionale tra Nicole, ventenne con la vita davanti, solide certezze, ma anche tante paure, idee chiare, ideali e illusioni ancora in piedi, e Alex, che da un pezzo ha superato la trentina e che è ormai scesa a patti con la vita, ne ha compreso le sfumature di colore e dunque non si aspetta quasi niente e prende quello che può, sebbene ad un costo personale molto elevato.

Ora, probabilmente, abituati ai film americani, già starete pensando all'inevitabile conclusione. Ebbene, dimenticatela, perché il film, sebbene talvolta abbia qualche cedimento quasi-sentimentale, non si fa tentare dalle soluzioni facili e precostituite, non fornisce risposte consolatorie, non ci manda a casa col cuore sollevato.

Cos'è meglio, tenere lo zaino vuoto e perseguire il sogno di una vita leggera e senza legami, ma inevitabilmente affetta dalla solitudine, oppure cercare evasione dai propri legami stabili e dalla propria vita "vera" in una vita parallela che ci dia ancora l'illusione della libertà, o ancora credere ingenuamente nell'eternità e felicità di un legame fino a farsi imporre improbabili scelte di vita?

Sarebbe bello avere una risposta, così come sarebbe bello poter pensare che il cinico Bingham si redima e trovi la felicità, ma Tra le nuvole non è quel tipo di film, anche quando fa finta di esserlo.

Un'ultima annotazione: colonna sonora di grande effetto e qualità, con una menzione particolare per Angel in the snow del grande e purtroppo prematuramente scomparso Elliott Smith. Di seguito una versione cover.

Voto: 3,5/5

giovedì 21 gennaio 2010

Soul kitchen

La cosa più sorprendente di questo film è certamente il fatto che il regista, Fatih Akin, sia riuscito a proporci una commedia brillante dopo averci toccato con un film di un'intensità drammatica notevole come La sposa turca. La capacità di passare da un registro comunicativo ad un altro significativamente diverso mi pare una caratteristica che non molti posseggono e, dunque, va ascritto a merito del regista di origine turca.

Il secondo dato che mi piace sottolineare di questo film è il modo in cui viene rappresentata una generazione, quella tra i 30 e i 40 anni (e oltre): non disorientata, disillusa, affettivamente instabile, depressa e lamentosa, come sarebbe accaduto in quasi qualunque corrispondente film italiano (ogni riferimento è puramente casuale...), ma dotata - nonostante alcuni infantilismi - di una energia vitale, di sogni e di una prospettiva di vita che affronta con forza anche le inevitabili disavventure dell'esistenza e i processi sociali degenerativi in corso.

Bello anche il modo in cui si parla - o meglio non si parla - di integrazione. Protagonisti del film sono due fratelli di origine greca, Zinos (Adam Bousdoukos) e Illias (Moritz Bleibtreu), che vivono ad Amburgo. Tutto lascia immaginare che siano immigrati di prima generazione, visto che quando parlano dei loro genitori la sensazione è che vivano lontano. Eppure il tema dell'integrazione resta sullo sfondo; il problema di Zinos e Illias non sembra essere quello di non essere tedeschi, ma quello di avere pochi soldi, lavori precari o poca voglia di lavorare. Zinos ha addirittura una fidanzata dall'aspetto molto tedesco, Nadine (Anna Bederke), sebbene finirà per innamorarsi della fisioterapista Anna (Dorka Gryllus) che tanto tedesca non sembra. Ma le differenze razziali e culturali in qualche modo sono soltanto dettagli e i protagonisti del film, qualunque colore della pelle o tratto somatico abbiano, appaiono perfettamente a loro agio nella grigia e fredda Amburgo.

Tutto ciò detto e pur confermando che si tratta di un film gradevolissimo, con una splendida colonna sonora, un divertente omaggio all'alta cucina e un'ottima sceneggiatura, non condivido le critiche entusiastiche che ne sono state fatte. Sinceramente mi meraviglia anche il Premio speciale della giuria che gli è stato conferito a Venezia.
Ormai di film di questo tenore, soprattutto provenienti dall'area europea o da certo cinema indipendente americano, secondo me ne abbiamo visti diversi e la sensazione è di non trovarsi di fronte a un prodotto così originale.

E, infine, devo assolutamente fare un appello a chi realizza i trailer: non è possibile che, nel caso di film come questi, il trailer faccia vedere le scene migliori e le migliori battute, perché secondo me crea un'aspettativa eccessiva penalizzando il film stesso. Ma, d'altra parte, si sa: i trailer servono a far andare la gente al cinema, poi quello che ne pensa una volta uscito interessa a pochi...

Voto: 3/5


lunedì 18 gennaio 2010

Io, loro e Lara

Ero andata a vedere il film di Carlo Verdone animata da grandi speranze e aspettandomi qualcosa di realmente diverso da quello cui Verdone ci ha abituati, viste le recensioni molto positive che avevo letto in giro.

Certamente si deve riconoscere a Io, loro e Lara una misura che spesso fa difetto a Verdone sia nella regia che nella recitazione. Si conferma la capacità di osservare con occhio ironico e critico allo stesso tempo la società e le persone che la animano, cogliendone le idiosincrasie e le caratteristiche in maniera non superficiale. Si ride anche di gusto, perché Verdone e gli attori che sceglie (vedi in particolare Angela Finocchiaro) sono capaci di una espressività e di una mimica di primordine e perché la risata non è suscitata con i soliti mezzucci squallidi cui alcuni film fanno ricorso, ma con battute intelligenti e situazioni nelle quali in qualche modo ci si riconosce.

La rappresentazione di Carlo, sacerdote missionario che torna in famiglia a Roma perché sta attraversando un momento di crisi, è lontana dal macchiettismo di alcuni personaggi da lui interpretati. I temi affrontati - seppure in maniera leggera - sono importanti: la crisi della famiglia, il razzismo strisciante, l'egoismo imperante, in un contesto di romanità così caro al regista.

Eppure, la sensazione di una certa superficialità non mi abbandona, questa romanità così preponderante mi rende difficile un processo di universalizzazione dei contenuti, una percezione di già visto finisce per starmi un po' stretto.

Sarà che preferisco il Verdone di Maledetto il giorno che t'ho incontrato o di Compagni di scuola, quello più malinconico e amaro, meno allineato ai dettami della commedia all'italiana, ma alla fine esco dal cinema sì col cuore leggero, ma senza grandi entusiasmi.

Voto: 2,5/5

domenica 17 gennaio 2010

A single man

Che dire? A single man mi è piaciuto, anche se altrettanto facilmente avrebbe potuto non piacermi, perché è una linea sottile quella che separa il piacere dal non piacere in film come questi.

La storia, tratta dal romanzo Un uomo solo di Christopher Isherwood, racconta una giornata della vita del professor George Falconer (Colin Firth), esattamente il 30 novembre 1962, il giorno che lui ha deciso di togliersi la vita, incapace di ritrovare un senso alle sue giornate dopo la morte in un incidente stradale del suo compagno per sedici anni, Jim (Matthew Goode). La giornata trascorrerà più o meno come al solito: la sveglia e la colazione in una casa bellissima, ma vuota, la lezione all'università, le commissioni del pomeriggio, l'incontro casuale con un ragazzo spagnolo bellissimo, la serata a casa della vicina e amica Charlotte (Julianne Moore), da sempre innamorata di lui, il dopo cena a prendere un whisky nel solito locale dove - non casualmente - la sua strada incrocia quella del suo seducente e ambiguo studente Kenny (Nicholas Hoult), che lo trascinerà in una pericolosa nuotata notturna. In questa normale giornata, la differenza è che George porta con sé la pistola con cui la farà finita e vive ogni momento come occasione di memoria della sua storia con Jim. Fin qui la storia.

Non possiamo poi passare sotto silenzio la confezione di questo film, di cui si è tanto parlato per sottolinearne la cura calligrafica del particolare, la scelta più che attenta di ogni inquadratura, la perfezione formale di una ricostruzione quasi maniacale degli anni Sessanta (arredi, trucco, pettinature etc.). Aggiungerei la scelta di una pellicola sgranata, l'alternanza - secondo me non casuale - di colori spenti e colori troppo accesi (com'era tipico dei film anni Sessanta), la scelta di una musica di sottofondo un po' demodè, le citazioni filmiche (il grande cartellone di Psycho) e musicali. Fin dall'apertura hai la sensazione di essere volontariamente risucchiata indietro nel tempo e tutto ciò è altamente godibile.

Ma è proprio nel rapporto tra la narrazione e la confezione formale che si sofferma la maggior parte delle critiche, a sottolineare che - nonostante la straordinaria interpretazione di Colin Firth (vincitore della Coppa Volpi al Festival di Venezia) - il film resta freddo, non riesce a muovere emozioni e partecipazione. Il che è vero.

Personalmente, credo però che questa freddezza, questo senso di sospensione e di distacco, questa vena depressa, quest'atmosfera ovattata che caratterizzano tutto il film siano assolutamente voluti e ricercati dal regista e dagli attori e, non a caso, il film comincia e finisce con l'immagine del corpo nudo del professor Falconer che fluttua senza volontà nell'acqua. E ancora non a caso la memoria di Jim è quasi sempre associata al mettere in evidenza la contrapposizione tra questo ragazzo ottimista e che sa sorridere alla vita e George, appesantito dall'essere in bilico tra il sensato e l'insensato, oppresso dalla presenza oscura della morte, bisognoso di un progetto e di una prospettiva, tutte sensazioni che apparentemente la morte del suo compagno ha determinato, ma che forse George si porta dentro da sempre e Jim è riuscito solo per un po' a smorzare.

In uno dei flashback, forse il più bel momento del film, George e Jim sono sul divano a leggere con i cani che sonnecchiano ai loro piedi. Jim parla di un episodio accaduto con il suo cane e ne trae motivo per osservare che i cani hanno capito tutto su come vivere la vita. George banalizza la cosa aggiungendo che ciò dipende dal fatto che sono creature semplici, come alcune persone, al che Jim aggiunge che la forza delle creature semplici è la capacità di saper vivere pienamente il presente senza proiettarsi costantemente nel futuro e che in fondo sarebbe bello essere come una farfalla che vive solo tre giorni, ma in quei pochi giorni racchiude tutta la bellezza dell'esistenza.

L'ultima giornata di George è la presunta dimostrazione di questo assioma: l'inutile trascorrere del tempo nell'insensatezza di una vita la cui componente sociale quasi sempre è una proiezione del personaggio che decidiamo di recitare, la solitudine esistenziale e senza rimedio, l'inevitabile incomunicabilità della nostra esistenza e del nostro essere che ci portiamo appresso. Una vita che si accende solo in quei rari momenti in cui riusciamo a creare un contatto con un'altra persona, in cui sappiamo guardare le cose con stupore, in cui tutto sembra ricominciare con rinnovata vitalità. Quei momenti che cerchi di afferrare e preservare, ma poi inevitabilmente e rapidamente svaniscono. La condanna di non essere esseri semplici, di essere dotati di un complesso mondo interiore e di una mente che è costantemente proiettata sul futuro e che inesorabilmente conosce il proprio destino di morte.
Se dunque cercate un film che parli di amore e di passione cambiate sala, piuttosto questo film parla dell'insensata ricerca di un senso della vita e della morte.

Insomma, un film che, nel farsi bandiera di un posizionamento nel passato, come il libro dal quale è tratto, appare invece concettualmente di una modernità sconcertante ed è in grado di esprimere tutta l'inquietudine del nostro essere postmoderni. Sarei curiosa a questo punto di leggere il libro di Isherwood per capire se questa sensazione nasce dalla sua scrittura o è il colore che Tom Ford ha voluto dare a questo personaggio e a questa storia (qui la sua intervista a Che tempo che fa).

Voto: 4/5



Voto: 4/5

martedì 12 gennaio 2010

Nuvolosità variabile / Carmen Martìn Gaite

Nuvolosità variabile / Carmen Martìn Gaite; trad. di Michela Finassi Parolo. Firenze: Giunti, 2007.

Due donne, Mariana e Sofia, amiche per la pelle durante l'età dell'adolescenza e poi allontanatesi a causa di un'incomprensione, si rincontrano all'inaugurazione di una mostra, mentre entrambe vivono un momento di transizione nella loro esistenza, Sofia soffocata da una vita di coppia in cui non si riconosce più e in una dinamica familiare di cui fatica a tenere il passo, e Mariana in fuga dal suo lavoro di psicanalista e da un amore impossibile e a tratti patologico.

A seguito dell'incontro, le due donne decidono di scriversi, senza necessariamente inviarsi i loro scritti, per riprendere il filo delle loro storie. Comincia così un affascinante racconto a due voci, in cui lentamente si fa luce sul passato e si guarda al presente da nuove prospettive, in una serie di rimandi incrociati che troveranno composizione solo nel ritrovarsi - non più solo emotivo - delle due amiche per dare un nuovo inizio alla propria esistenza.

Non c'è un grande sviluppo narrativo in questo libro, ma certamente c'è una grande narrazione, se è vero che attraverso la scrittura di Sofia e Mariana viene tratteggiato il quadro di un animo femminile mutevole, variabile, instabile, ma dotato di una ricchezza straordinaria. E sono infatti proprio i pensieri e le parole delle due donne la vera ricchezza di questo romanzo.

Le due amiche condividono l'idea che "la sopresa è come una lepre che dorme nell'erba" e che "chi va a caccia non la vedrà mai dormire", ed ognuna a suo modo ce lo comunica con sensibilità e profondità di approccio. La vita, la letteratura, la felicità sono tutte lepri che dormono nell'erba. Anche innamorarsi deve principalmente incuriosire, tanto che "non si smette di amare una persona a causa dei suoi difetti, ma perché scopri che non t'interessa interpretarli né comprenderli" (p. 199).

Ci riconosciamo quando Sofia suggerisce che "[...] occorre guardare le cose dal di fuori perché il disordine diventi ordine e abbia un senso." (p. 40) O quando ricorda che "Tra tutte le cose che uno riesce a fare da soli nella vita, ridere è la più difficile". (p. 99) Come lei, anch'io devo ammettere che "la realtà non mi piace, non mi è mai piaciuta. Mi ci sono dovuta adeguare alla bell'e meglio" (p. 130).

Mariana è invece quasi spietata nell'affermare che "crescere è cominciare a separarsi dagli altri, riconoscere questa distanza e accettarla." (p. 65)
Ed è angosciante sentirla dire che "le cose non chiarite a tempo debito vanno formando come un muro di scorie porose che subito si solidificano e nessun piccone, alla fine, è in grado di scalfirlo. [...] Una diga costruita col cemento della codardia e dell'inerzia, che finisce per bloccare il passaggio a una relazione un tempo trasparente.(p. 26) D'altro canto, "non basta sbattere la porta e uscire di casa per liberarsi dell'influenza di altre vite che condizionano la tua" (p. 285).

Mariana e Sofia, se da un lato testimoniano con le loro vite che "tutto è solitudine" (p. 152), dall'altro rinascono nella scoperta che "poter chiedere a qualcuno: «Ti ricordi?», e vedere che è vero, che si ricorda" (p. 174) aiuta ad affrontare il proprio essere soli e a "staccarsi dal tumore del passato lasciando indenne il tessuto del presente, delicato e fragile come un petalo" (p. 175).

Voto: 3/5

lunedì 11 gennaio 2010

L'uomo nero

Per me, pugliese in esilio volontario, vedere un film di Sergio Rubini è sempre un'emozione.
Mi era successo già - e forse ancora di più - con La terra; la conferma arriva ora da L'uomo nero.

Non v'è dubbio sul fatto che Rubini, ormai più che cinquantenne e da una vita ormai lontano dalla sua terra d'origine, la Puglia, stia vivendo una fase di rivisitazione e riappropriazione delle proprie radici, quelle radici forse a lungo disconosciute e ad un certo punto ritornate prepotentemente alla ribalta del proprio vissuto e del proprio percorso emotivo.
Due cose in particolare mi piace sottolineare: da un lato, il fatto che l'alter ego di Rubini in questi film (qui Fabrizio Gifuni, ne La terra Fabrizio Bentivoglio) vengano sempre rappresentati come persone che hanno fatto fortunate carriere e con un grande successo personale, ma tendenzialmente scialbe, incolore, prive di un'identità vera, che solo la conciliazione con la propria terra fa rivivere. Dall'altro lato, è assolutamente interessante lo sguardo di questi esuli, che certamente colgono della propria realtà originaria molte sfumature che chi ci ha sempre vissuto non è in grado di vedere, ma, nel processo di elaborazione e filtro operato dalla memoria, in qualche maniera fissano la realtà a un momento passato e così continuano a vederla, perdendo in parte la capacità di coglierne l'evoluzione.

Capisco, dunque, anche perché chi va a vedere i film di Rubini senza avere alle spalle un vissuto emotivo in qualche misura comparabile può apprezzare l'invenzione narrativa e la bravura degli interpreti, ma tutto sommato non riesce a coglierne messaggi realmente generalizzabili. E così sicuramente il piccolo Guido Giaquinto è bravo e fa tenerezza, Rubini, Scamarcio e la Golino tengono molto bene la scena ed evitano ai loro personaggi il macchiettismo, però solo a chi questo percorso lo ha vissuto sulla propria pelle il film permette di vivere un'avventura emotiva forte.

Non possiamo non provare una stretta al cuore quando lo zio Pinuccio dice al piccolo Gabriele: "Le cose a volte non sono come sembrano", perché bisogna avere la pazienza di aspettare che disvelino la loro vera natura.
E forse anche questa nostra insensata vita che ci allontana per riavvicinarci, che prima ci fa inseguire la nostra identità lontano dai luoghi e dalle persone della nostra infanzia, perché solo la distanza ci fa capire ciò che ci differenzia, alla fine ci fa ritornare lì dove tutto è cominciato, perché solo lì capiamo ciò che inesorabilmente ci appartiene e ci dà continuità.

Voto: 4/5

sabato 9 gennaio 2010

Il dio della carneficina

È in programmazione fino al 10 gennaio al Teatro Eliseo di Roma l'opera teatrale Il dio della carneficina, dell'autrice francese di origine iraniana Yasmine Reza.

La pièce ha avuto uno straordinario successo in Francia ed è stata rappresentata in numerosi altri paesi europei, coinvolgendo grandi attori, da Isabelle Huppert a Ralph Fiennes.
Anche a Roma, dove questa è la seconda stagione teatrale in cui l'opera viene portata in scena, il cast è di tutto rispetto: Silvio Orlando, Anna Bonaiuto, Alessio Boni e Michela Cescon, per la regia di Roberto Andò.

Siamo in un interno borghese dove due coppie si incontrano per discutere come gestire le conseguenze di un violento litigio tra il figlio dell'una e quello dell'altra. Tutto comincia su toni molto moderati e formali, ma - man mano che il confronto va avanti -, complice un malore e un po' di rum, il dialogo diventa acceso non solo mettendo in contrapposizione le due coppie, ma anche marito e moglie all'interno di ciascuna coppia. Le ipocrisie borghesi vengono messe a nudo e derise, la presunta civiltà occidentale ne esce a pezzettini, la famiglia rivela il suo vero volto... Ossessioni, paranoie e schizofrenie sembrano essere la cifra dominante delle persone in una società che evidentemente non ci dà la possibilità di entrare davvero in contatto con noi stessi.
Eppure, nonostante tutto questo, si ride, riconquistando quella leggerezza che i protagonisti ammettono di aver definitivamente perso.

Gli attori sono tutti bravissimi. Poco da dire su Silvio Orlando, che incarna alla perfezione il suo personaggio crudelmente dimesso, ed è in grado di conferirgli - non solo attraverso le parole - uno spessore e un colore straordinari.
Vorrei spendere qualche parola in particolare per Michela Cescon, già apprezzata attrice per Garrone in Primo amore e per Bellocchio in Vincere, che dimostra la sua versatilità nell'interpretare un ruolo tra il comico e il melodrammatico, facendoci alla fine risultare addirittura simpatico il suo personaggio.

Certo, mi colpisce sempre del teatro quel ritmo narrativo un po' sincopato, quell'unità di tempo e luogo cui il cinema e la televisione ci hanno disabituati. Ma forse il teatro, proprio per questo suo collocarsi volontariamente sopra le righe senza voler necessariamente scimmiottare la realtà, ci restituisce un'immagine più vera di quello che siamo nella nostra essenza.

Voto: 3,5/5

martedì 5 gennaio 2010

Nudo per Stalin: mostra fotografica

È ormai in chiusura la mostra fotografica Nudo per Stalinorganizzata dall'Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione del Comune di Roma presso la Sala Santa Rita, in via Montanara, a Roma, dal 29 ottobre all'11 gennaio (a cura di Nicoletta Misler).

Si tratta di una piccola mostra articolata in tre parti:
- l'esposizione di una settantina di fotografie russe degli anni 20-30;
- alcuni documenti originali di archivio relative alla vicenda del fotografo Aleksandr Danilovič Grinberg (1885-1979), condannato a 5 anni di lager per le sue fotografie di nudi considerate pornografiche;
- un contributo video che mette in relazione tra di loro le fotografie e spiega in maniera semplice il contesto storico di riferimento.

Il tema della mostra è la trasformazione dell'iconografia del corpo, soprattutto di quello femminile, nel passaggio dalla seconda metà degli anni '20 alla piena affermazione del regime stalinista degli anni '30.

La fase pre-staliniana è rappresentata attraverso le fotografie del gruppo dei fotografi pittorialisti, fotografie artistiche di nudi femminili ispirate a famose pose dell'arte classica e messe in relazione con contesti naturalistici. Nonostante le tecniche fotografiche piuttosto arcaiche si tratta di foto dotate di una straordinaria modernità, che non a caso suscitarono scalpore quando furono portate in mostra a Mosca negli anni 1925-27 in occasione dell'evento "Arte in movimento".

Con l'affermarsi del regime stalinista la rappresentazione del corpo umano diventa strumento di propaganda e perde quasi completamente la sua individualità. Le fotografie si popolano di corpi di ginnasti in pose acrobatiche e parate di donne-fotocopia forti e lavoratrici al servizio della nazione, mentre il nudo diventa possibile solo nelle immagini delle stazioni termali a rappresentare corpi sani e vigorosi.

Sono evidenti i richiami di certa propaganda iconografica dei regimi fascisti, ma la cosa che mi ha impressionato di più è l'inevitabile collegamento con il processo di perdita di identità del corpo femminile in atto anche oggi. La proposta di un modello unico dal punto di vista fisico e la semplificazione della complessità del ruolo femminile in direzione di uno stereotipo sono dunque temi di assoluta attualità e che - in qualche maniera - accomunano tutti i periodi storici caratterizzati da un processo di inaridimento della qualità della società civile.

Mostra piccola e, per certi versi, senza pretese, ma capace di suscitare riflessioni. E non è poco.

Il catalogo della mostra è pubblicato da Gangemi editore.

Voto: 3,5/5

domenica 3 gennaio 2010

La principessa e il ranocchio

Innanzitutto, questa volta è essenziale che io descriva il contesto.

Ore 16,30: multisala annessa a un grande centro commerciale della provincia barese.
Insomma, tipica situazione da non-luogo nel mio ultimo giorno di vacanze natalizie.

Ma per me è un inedito assoluto e molto divertente. Sono con i miei tre nipoti, mia sorella e mia cognata. Mentre mio fratello e mio cognato fanno un giro al centro commerciale, noi andiamo tutti insieme a vedere uno dei tanti cartoni di Natale, La principessa e il ranocchio, o come dice mio nipote di 5 anni, La principessa e il narocchio, o ancora, come dice mio cognato, La principessa è una racchia.

Senza successo, a causa della rottura del proiettore, avevamo cercato di vedere il medesimo film qualche giorno fa nel cinemino di paese. Ci abbiamo riprovato alla multisala, essendo subito sparito dai piccoli cinema di provincia.

Ed il film non ci ha deluso nel suo essere così classico e tradizionale. Non le meraviglie del 3D, non l'ironia adulta dei cartoni Pixar, non la trama a doppio livello di lettura tipica dei film di animazione degli ultimi anni, bensì un tipicissimo film Diseny, bidimensionale, colorato, inframmezzato da intermezzi di musica e mirabolanti coreografie, con un "cattivo" classico e un vero trionfo dei buoni sentimenti.

Liberamente ispirato alla fiaba Il principe ranocchio, che tutti conosciamo, la reinterpreta per darle un contesto jazz, un'ambientazione che abbia echi di contemporaneità (New Orleans e il Mississipi), azione e personaggi minori divertenti e caratterizzati.

E alla fine, quando Ray si ricongiunge alla sua Evangeline una lacrimuccia scappa pure (o solo?) a noi adulti, subito superata dal lieto fine.

Niente a che vedere, dunque, col fascino di Miyazaki (vedi la recensione a Ponyo sulla scogliera e a Il mio vicino Totoro), né con l'intelligenza di certi prodotti Pixar (qui la mia recensione all'ultimo Up), piuttosto echi di La bella e la bestia, Il re leone e altri classici Disney.

Non so se questo film avrà la stessa fortuna di quelli - forse no - ma certo ogni tanto fa piacere sapere che ancora si fanno i bei vecchi cartoni di una volta, poco o per niente post-moderni, che mantengono ancora intatto il loro fascino.
E vederli con tutta la famiglia in un indolente pomeriggio natalizio, come direbbe una nota pubblicità, non ha prezzo!

Voto: 3/5